La Via degli Abati (VɅ), nota anche come itinerario francigeno di montagna, parte da Pavia e dal territorio pavese si eleva sull’Appennino Tosco-Emiliano attraversando le provincie di Piacenza e Parma per giungere in quella di Massa Carrara, con i comuni di Broni, Castana, Canevino, Pometo, Caminata, Romagnese, Bobbio, Coli, Farini, Bardi, Borgo Val di Taro per giungere infine in Toscana, dove nel comune di Pontremoli si connette con altri itinerari, tra cui la Via Francigena classica.
Il tracciato è lungo circa 190 km e si snoda per sentieri, mulattiere e carrarecce attraversando valli e crinali per un dislivello complessivo di oltre 6000 metri. I tratti su strada asfaltata sono la minima parte e solo nei pressi dei centri abitati. E’ segnato CAI (bande orizzontali con bianco e rosso) ed è georeferenziato.
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Il Passo di Linguadà è lo spartiacque tra la piacentina Valle del Nure e la parmense Valle del Ceno.
Da qui la Via degli Abati propone due alternative per raggiungere Bardi con la sua fortezza:
La prima, detta Variante Bassa, segue grosso modo la strada carrozzabile ed è il percorso storico della Via degli Abati. Attraversa o sfiora gli abitati di Boccolo dei Tassi, Cerreto, Grezzo, passando nei pressi di una vecchia cava abbandonata di talco.
La seconda, o Variante Alta, più impegnativa ma più interessante dal punto di vista naturalistico, deriva da esigenze sportive in quanto ogni primavera dal 2008 si corre l’ultratrial denominato The Abbots Way. Salendo per la Costa della Stirata si raggiunge il piatto groppone del Monte Lama (1345 mt), il Colle del Castellaccio (1308 mt) e la cima conica del Monte Crodolo (1256 mt), da dove si scende verso Bardi ricongiungendosi al percorso storico. Si attraversano differenti aree geologiche che caratterizzano un paesaggio di pascoli, rocce, faggete, flora multicolore e fauna varia, elusiva e difficile da osservare, eccetto gli uccelli.
Lungo la variante del Monte Lama non si incontra nessun centro abitato, c’è solo un punto acqua in località Basona, mentre percorrendo la via storica si trovano piccole frazioni di case in pietra, la più grande di queste è Grezzo.
GREZZO
Grezzo sorge sul fianco meridionale del monte Crodolo (m. 1257), sulla sinistra del del torrente Dorbora, a 700 metri di altitudine. Il paese dista circa 4 Km da Bardi.
La piccola frazione affonda le radici nella storia. La chiesa di S. Michele viene infatti registrata per la prima volta nel 905. Già nel X secolo vi era officiato un oratorio che cinque secoli dopo lasciò il posto all’attuale edificio sacro. Vi esercitarono signoria feudale i Landi dal 1135 fino al XVII secolo e a ricordo di questo illustre passato restano tracce di fortificazioni a Pietra Gemella, Pietra Nera e a Pietra Cervara. L’edificio della chiesa di San Michele è stato riadattato dopo la metà del Settecento. Ha una pregevole facciata sul cui consunto stipite in arenaria si apre il portone realizzato da Romolo Campanini.
In località Pietracervara, nelle vicinanze di Grezzo, una volta sorgeva un castello di cui sono tuttora presenti i ruderi. I padroni di questo castello erano i Pallavicino, che poi lo vendettero al Comune di Piacenza. Passò successivamente ai Landi, ma questi lo abbandonarono per abbellire quello più importante di Bardi.
Un altro castello sorgeva a circa 5 Km dal paese ed era detto di Prezimella: fu distrutto nel 1141 per ordine dei Consoli di Piacenza, assieme a quello detto di Pietra Nera.
In prossimità di Bardi si incontra la piccola romanica Chiesa di San Siro; da qui, imboccando la stradina a destra della provinciale, appare Bardi con la sua Fortezza.
GEOLOGIA
Durante il periodo Giurassico medio (180-150 milioni di anni fa) enormi quantità di lave di origine profonda (eruttate dal mantello) formarono il fondo di un bacino oceanico che si andava ampliando. Queste lave, costituite essenzialmente da peridotiti, diedero origine a rocce scure e pesanti, ricche di ferro e di magnesio, simili tra loro chimicamente ma con strutture diverse a causa delle diverse condizioni di solidificazione: basalti se raffreddate rapidamente, gabbri se solidificate più lentamente, serpentiniti se, sottoposte per lunghi tempi a forti pressioni ed alte temperature dopo la solidificazione, subirono processi di metamorfosi, generando vari minerali tra cui, tipici, sono il talco e gli amianti. Il nome generico di questo complesso eterogeneo di rocce è rocce verdi od ofioliti, dalla parola greca che indica i serpenti, a causa dell’aspetto marezzato che può ricordare la pelle dei rettili (soprattutto per i serpentini metamorfici). Sopra queste lave si depositarono fanghi formati dai gusci silicei di minuscoli animali marini, i radiolari, che solidificandosi diedero origine ai diaspri. Successivamente, la diminuzione della profondità di questi bacini permise la deposizione di fanghi calcarei, chiari e leggeri, che formarono i calcari a calpionelle, chiamati anche maioliche.
Durante la successiva chiusura del bacino oceanico si depositarono altri sedimenti, che originarono rocce diverse: le arenarie di Scabiazza e i flisch ad elmintoidi. Sul Monte Lama troviamo tutte queste rocce in successione invertita per il ribaltamento degli strati dovuto ai complessi movimenti che hanno fatto emergere la catena appenninica. Salendo troviamo quindi prima i flisch ad elmintoidi e le arenarie di Scabiazza, poi la maiolica, i diaspri ed infine, alla sommità, le ofioliti, cioè le rocce più antiche, l’antico fondo oceanico. Le ofioliti contengono alte percentuali di amianto.
Veduta del Monte Lama da WSW, località Boccolo dei Tassi, che evidenzia la grande placca rovesciata con diaspri (d) e calcari a Calpionella (cC) insieme alle ofioliti (o) e ai complessi di argille e brecce (a).
Modificato da Società Geologica Italiana (1994).
Diaspro
Pietra di origine sedimentaria compatta, molto dura, senza piani di frattura preferenziali; per queste caratteristiche fu utilizzato come materia prima per la produzione di utensili litici. Ricerche recenti hanno identificato nella zona i resti di numerose officine di scheggiatura, una delle quali accanto alla cava preistorica; il diaspro del Monte Lama è stato utilizzato per varie decine di migliaia di anni, dal paleolitico medio fino almeno all’età del bronzo. Ne sono state trovate schegge lavorate nel raggio di una ventina di chilometri.
Talco
Il talco (fillosilicato di magnesio) è un minerale di origine metamorfica molto tenero (I grado della scala di durezza dei minerali) liscio ed untuoso al tatto, si scalfisce con l'unghia. I colori vanno dal verde più comune, al giallo, al nero.
Trova largo impiego nell'industria delle materie plastiche, della carta, della ceramica e della gomma. E’ utilizzato nella cosmesi come borotalco, nella farmacopea come eccipiente nelle pillole, nel processo di raffinamento del riso per renderlo brillante. La varietà compatta (steatite o pietra saponaria) è utilizzata da tempi remoti per produrre piccoli oggetti ornamentali o di uso quotidiano, tra cui il gessetto da sarto, che lascia una traccia bianca sulla stoffa senza sporcarla.
Il talco estratto nella nostra vecchia cava a monte della SP77, 150 mt a nord del bivio per Casermure (coordinate 44°38'49'' N - 9°40'44'' E, quota 850 mt) tra Boccolo dei Tassi e Grezzo, veniva lavorato nella vicina frazione di Vischeto dove è ancora presente La Fabbrica del Talco. Nella struttura, dismessa negli anni trenta del secolo scorso, con la protezione del governo fascista fu alloggiato un gruppo di Ustascia croati addestrati per destabilizzare la situazione politica europea del tempo; il 9 ottobre 1934 alcuni terroristi del gruppo assassinarono il re Alessandro I di Iugoslavia ed il ministro degli esteri francese Louis Barthou a Marsiglia.
A pochi chilometri da questa cava sono stati scavati i resti di una officina antica per la produzione di piccoli pesi da telaio in steatite, probabilmente di epoca medioevale.
FLORA E FAUNA
La vegetazione è ricca di specie rare ed interessanti: sulle rocce esposte a sud vegetano esemplari di pero corvino (Amelanchier ovalis), nelle zone umide qualche rara orchidea come l’Epipactis palustris, oltre all’Eriophorum e al Trollius europaeus (il Botton d’oro), nella faggeta la piccola orchidea Epipactis microphylla, nei prati sommitali la Gentiana Kochiana, la Tulipa australis, la Scilla bifolia, l’Armeria. Sulle rocce troviamo alcune sassifraghe (S. rotundifolia, ) e vari Sedum (Sempervivum tectorum ), dalle fessure fanno capolino le fronde del falso capelvenere e della felce rugginosa. La superficie delle rocce è sovente rivestita da licheni crostosi e spesso vivacemente colorati, che sono forme di vita vegetale primitiva e frugale costituita dall’associazione di un fungo e di un’alga che colonizza le superfici rocciose; il loro insediamento contribuisce alla disgregazione della pietra, creando un primo esile strato di suolo che permette l’attecchimento di altre piante. Ricca la flora fungina, sia dal punto di vista micologico che alimentare, soprattutto per quanto riguarda le boletacee, dal pregiato porcino al colorato e tossico Boletus rhodoxanthus, al raro Boletus dupainii.
Per quanto riguarda la fauna sono frequenti volpi, cinghiali, caprioli, daini e numerose specie di uccelli, fra cui i rapaci in felice ripresa. Interessante un raro anfibio, il geotritone (Speleomantes italicus), presente in una piccola grotta formatasi al contatto tra diaspri e calcari a calpionelle.
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BARDI E IL SUO CASTELLO
La Fortezza di Bardi è arroccata da più di mille anni sopra uno sperone di diaspro rosso, alla confluenza dei torrenti Ceno e Noveglia, e rappresenta un massimo esempio di architettura militare in Emilia.
Il primo documento che ne parla è datato all’898, anno in cui viene acquistata dal vescovo di Piacenza Everardo, anche se già prima il monastero di Bobbio e quello di Nonantola vantavano beni sul territorio.
Dalla metà del Duecento appartenne, per oltre quattro secoli, alla dinastia Landi, principi rinascimentali, quale capitale di uno Stato che comprendeva il Marchesato di Bardi, il Principato di Borgo Val di Taro, la Contea di Compiano e la Baronia di Pieve di Bedonia. I Landi, sempre fedeli all’Impero, ebbero inoltre in feudo altri territori quali, per breve tempo, Varese Ligure e Zavattarello, ma anche, ad esempio, Venafro in Molise.
Verso la fine del Cinquecento la Fortezza venne parzialmente trasformata in elitaria dimora patrizia: segno dell’importanza assunta dalla famiglia sono i diplomi imperiali che tra ‘500 e ‘600 concessero ai principi di battere moneta e di creare un Collegio dei Notai e gli statuti del 1599 dove è formalmente citato lo Stato dei Feudi Imperiali Landi.
La famiglia resse questi territori dal 1257 al 1682: Andrea III Doria Landi, erede della principessa Maria Polissena, ultima della stirpe, in quell’anno cedette i principati al Duca di Parma Ranuccio II Farnese in cambio di 124.714 ducatoni.
Da ammirare sono i camminamenti di ronda, le torri, la piazza d'armi, il cortile d'onore porticato, il pozzo, la ghiacciaia, i granai, le prigioni, il Bastione di Artiglieria fatto costruire da Manfredo Landi il Magnifico nel XV secolo e soprattutto le Sale dei Principi.
Due di queste mostrano, nelle volte, gli stemmi e i possedimenti dei Principi Landi e dei Grimaldi, allora solo Signori di Monaco, imparentatisi con i primi per matrimonio.
Gli ex quartieri dei soldati ospitano il Museo della Civiltà Valligiana, mentre altri ambienti accolgono quello della Fauna e del Bracconaggio e quello dedicato a ritrovamenti archeologici relativi alla preistoria della valle.
Dagli spalti potrete ammirare le vette dell’Appennino ligure-emiliano: il monte Penna (1735 m), il Tomarlo, il Ragola (dove resiste una delle sole due colonie appenniniche di Pino Mugo – Pinus Uncinata Miller), il monte Carameto, il torrente Ceno a monte e a valle sino al paese di Varsi e oltre, la pieve di Santa Maria Assunta di Casanova, la chiesa dedicata alla Madonna delle Grazie, e il centro del paese.
Qui potrete apprezzare la chiesa cinquecentesca di San Giovanni, che fu parrocchiale di Bardi sino agli inizi del secolo scorso e il duomo odierno. Sorto sull’antica chiesa e convento dei Serviti (di cui restano tracce), in stile neobizantino, ospita la famosa Pala del Parmigianino, appena restaurata, rappresentante Le Nozze Mistiche di Santa Caterina.
Il dipinto, realizzato nel 1520, mostra la Vergine con in braccio il Bambino, Santa Caterina d’Alessandria, e i due Giovanni: Battista ed Evangelista. Opera giovanile ma di grande impatto, fu già apprezzata dal Vasari.
In Piazza Vittoria il municipio, in stile razionalista, e il Monumento ai Caduti, mentre lungo la via centrale si incontra Palazzo Maria Luigia, probabilmente ai tempi dei Landi Palazzo della Comunità. Se camminerete nella parte più antica del paese, abbracciata alla fortezza, alzate gli occhi alle edicole votive inserite nei muri degli edifici e agli architravi delle porte, spesso decorati.
Infine la chiesa sconsacrata di S. Francesco, fatta erigere nel Seicento da Federico Landi su un edificio sacro più antico già pantheon della famiglia, gestita, come il convento ad essa collegato, dai frati francescani e soppressa dagli ordinamenti napoleonici. Gli arredi sono oggi conservati nella chiesa di Santa Giustina in Val Lecca.
Dopo l’avvento dei Farnese, Bardi e la sua fortezza seguirono le sorti del Ducato di Parma e Piacenza sino all’Unità d’Italia, per essere ancora protagonisti all’interno del movimento partigiano nel corso della II guerra mondiale. La frazione di Osacca fu infatti centro del primo scontro tra nazifascisti e partigiani nel Natale 1943 e Bardi divenne fulcro del primo territorio libero italiano (giugno 1944) dopo la presa di Roma.
NATURA
Il Castello di Bardi poggia sulla grande roccia separatasi anticamente dal Monte Lama e scivolata sugli strati sottostanti fino ad arrivare dove si trova ora. E' formata da basalti e da diaspri nella parte alta, a contatto con le pareti della fortezza.
I due tipi di roccia, apparentemente simili ed entrambe di colore rosso intenso,
hanno origini completamente diverse.
- i basalti sono antiche lave effuse nel Giurassico sul fondo dell’oceano Ligure-Piemontese e qui si presentano sia con struttura massiccia che a cuscini (pillows); hanno spesso una struttura vaiolata o porosa, dovuta ai gas presenti nel magma e rimasti intrappolati durante la solidificazione;
- i diaspri, di origine sedimentaria, sono i primi depositi marini che si sono formati sulle lave solidificate, costituiti dai gusci silicei di minuscoli animali marini, i radiolari; si presentano compatti, a volte a frattura lucida, e spesso stratificati. Il diaspro è una pietra molto dura, senza piani di frattura preferenziali. Se n’erano accorti i nostri progenitori di queste preziose caratteristiche e lo hanno utilizzato come materia prima, dal paleolitico medio fino almeno all'età del bronzo, per la produzione di utensili litici, come succedaneo della selce da noi più rara. Sul vicino Monte Lama sono state identificate i resti di numerose officine di scheggiatura, ed alcuni frammenti di diaspro lavorato sono stati rinvenuti anche alla base della roccia del castello.
Di notevole interesse, anche botanico, l'area alla base del castello (localmente chiamata Spiàssero). Il terreno, in origine ofiolitico, ha creato un ambiente fortemente selettivo per la vegetazione a causa della carenza di acqua e sostanze nutritive e della relativa abbondanza di elementi tossici e del colore scuro che contribuisce, durante il periodo estivo, a renderlo particolarmente inospitale per l'elevata temperatura del substrato. L’insediamento umano ha arricchito di sostanza organica e fertile il terreno a contatto con rocce ofiolitiche, naturalizzando numerose specie particolari portate in Castello per la particolare bellezza od utilità. La felice esposizione a sud, riparata dai venti freddi, e il calore immagazzinato dalle rocce scure permettono anche la vita di piante tipiche della flora mediterranea.
Abbiamo quindi un insieme unico di specie tipiche delle ofioliti e di specie "fuori posto" rare, almeno localmente. Notiamo fichi e mandorli, fioriti tra Natale e Capodanno, gli iris in maggio (I. germanica), i bucaneve (Galanthus nivalis), il luppolo (Humulus lupulus), le bocche di leone (Antirrhinum majus), l'issopo (Hyssopus officinalis), la valeriana rossa (Centranthus ruber, mediterranea), il muscari (Leopoldia comosa, noti come "lampagioni") e soprattutto la rarissima Sternbergia lutea, con fiori gialli simili a grandi crochi che fioriscono a fine estate. Questa pianta, qui abbondantissima, è stata segnalata dal Passerini nel 1852 per l'ultima volta in provincia di Parma e mai più rinvenuta fino a pochi anni fa.
Si notano ancora tracce di terrazzamenti coltivati a vigneto fino agli anni ‘60, mentre alcuni gelsi testimoniano la presenza dell'allevamento locale del baco da seta.
Il cespuglieto è ricco di specie a bacche colorate, dal rosso dei cinorrodi delle rose, delle bacche del biancospino e del gisilostio (Lonicera xilosteum) all’arancio della fusaggine, in contrasto con il blu scuro dei pruni ed il nero del ligustro; tutti questi frutti o i loro semi nutrono piccoli animali selvatici che stanno popolando l’area. L’asprezza del luogo, la relativa difficoltà di accesso alle parti più interne ed il conseguente minor disturbo da parte dell’uomo stanno favorendo la colonizzazione dello Spiàssero da parte di una numerosa e varia comunità animale. I più facili da osservare e ascoltare) sono gli uccelli: cinciallegre, cinciarelle, verdoni, merli, gli ubiquitari passeri, gazze, ghiandaie, cornacchie e pettirossi accompagnano specie meno note, come il fiorrancino o il codirosso; uno stormo di piccioni condivide con una chiassosa colonia di taccole gli anfratti del Castello e le torri di S. Francesco e S. Giovanni. Di notte è facile sentire il verso della civetta e più spesso, in estate, l’ossessivo “chiù” dell’assiolo e le variatissime melodie dell’usignolo.
Più difficili da osservare i mammiferi, che però si possono identificare dalle tracce: nel folto dei cespugli si nasconde una numerosa popolazione di micromammiferi (topolini, arvicole, moscardini) oltre a ricci e piccoli carnivori (faine, donnole); al vertice della piramide alimentare troviamo la volpe.
BREVE ESCURSIONE
La Via degli Abati passa alla base della grande rupe ofiolitica su cui è costruito il Castello di Bardi. Vale la pena arricchire questo tratto del percorso trasformandolo in una breve escursione geologica e naturalistica veramente interessante.
Passando di fianco alla chiesa di San Giovanni si raggiunge il Groppo della Predella, un belvedere alberato da cui si può ammirare un ampio panorama; a sinistra si allunga la vallata del Ceno che si apre la strada verso la pianura tra il Monte Carameto a sinistra e il Monte Dosso a destra; il caratteristico monte di fronte è il Pizzo d’Oca, del gruppo del Monte Barigazzo, caratterizzato da dirupate pareti che tagliano le stratificazioni delle arenarie di Ranzano; a destra abbiamo il massiccio lato est del castello.
Seguendo a destra il viottolo in discesa fra alti muri, si arriva in breve alla base della roccia del castello e la si contorna in senso orario. Impossibile ignorare un curioso pinnacolo di basalto alto alcuni metri, chiamato dai bardigiani “Sampitocco”, proprio di fianco al sentiero, fino a raggiungere in pochi minuti la chiesetta dedicata alla Madonna di Pompei, a sinistra della quale è stata ricavata una fontanella da un grande blocco di diaspro fittamente stratificato.
Da qui, attraversando la strada provinciale, si prosegue il percorso sulla Via degli Abati oppure si ritorna in paese percorrendo la stradina a destra della chiesa che rapidamente ci conduce a luoghi antichi.
Lungo il percorso cambiano continuamente gli scorci sulle mura della rocca, che si adattano ai dirupi sottostanti.
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VAL VONA
Oltrepassato il crinale che separa i bacini di Ceno e Taro, la Via degli Abati scende verso il fiume attraverso la valle del Vona. Due sono le strade che la percorrono. Lungo quella in sponda sinistra incontriamo le chiese di San Pietro e di San Cristoforo, in destra idrografica quella di San Martino. La titolazione a due figure protettrici dei viandanti conferma l’importanza che questa valle aveva negli itinerari, forse già utilizzati in epoca romana. Le due vie si saldavano a Caffaraccia, dove era il primo castello dei Platoni, potente famiglia della zona e livellari del Monastero di Bobbio.
Poco si conosce della chiesa di San Pietro, di cui si ignora anche la data di costruzione, mentre scavi archeologici hanno fornito preziose indicazioni sulle origini della chiesa di San Cristoforo. Questa, isolata come la precedente, sorge in posizione panoramica nei pressi delle sorgenti del Vona.
L’impianto più antico è probabilmente da ricondurre a Plato Platonis che nel 1017 avrebbe realizzato a sue spese importanti interventi nelle chiese di San Giorgio a Borgo Val di Taro e di San Cristoforo. L’edificio venne poi ricostruito quasi certamente dopo i danni provocati da terremoti che colpirono il territorio nel 1438 e nel 1545.
Nel 2005 altri scavi archeologici sono stati realizzati anche nella chiesa di San Martino in Canal di Vona, già detta San Martino in Rivosecco. La prima costruzione, a navata unica e di piccole dimensioni, fu più volte ampliata fino al 1934.
I Platoni
Di origine longobarda e discendenti dal miles Facino Platoni, dagli inizi dell’XI secolo, i Platoni esercitarono veri e propri diritti feudali anche nel territorio della Val Vona.
Secondo il testamento (dubbio) di Plato Platoni, morto nel 1022, il patrimonio sarebbe stato suddiviso tra i suoi sette figli. Dei loro castelli rimangono solo ruderi: murature in pietrame nell’alta Val Vona tra le chiese di Caffaraccia e S. Cristoforo apparterrebbero al più antico castrum Platone, mentre altri muri ricorderebbero i castra di Termino sul Monte Termine, di Penditia in località Cornice e di Spiagium sul Monte Spiaggi.
LA NATURA DELLA VAL VONA
A dispetto del suo essere stata teatro di avvenimenti storici e insediamenti di antica data, la valle del Vona oggi alberga una rigogliosa natura selvaggia e incontaminata. I prati sui crinali, i folti boschi sulle pendici montane, le ripide pareti rocciose, le vetuste piantagioni di pini contribuiscono a creare un ambiente ideale per la vita degli ungulati (caprioli, daini, cervi e cinghiali), per la presenza del loro predatore principe (il lupo), e per la riproduzione dei rapaci: non è difficile nelle calde giornate estive osservare il pigro veleggiare delle poiane, dei falchi pecchiaioli e dei bianconi in cerca di preda.
La faggeta
Le pendici del massiccio che divide la valle del Ceno da quella del Taro sono coperte da una folta faggeta dalle eccezionali caratteristiche di naturalità. Forse per il microclima umido, forse per l’acclività dei versanti che l’hanno risparmiata da tagli frequenti ed eccessivi, ospita oggi numerose specie arboree che altrove sono scomparse, come tigli, olmi montani, frassini maggiori, agrifogli, sorbi, aceri, meli selvatici.
Il sottobosco non è da meno, e dalla primavera all’estate si ammanta di estese fioriture di campanellini, anemoni, agli ursini e aquilegie.
Le conifere
In prossimità del crinale si incontrano due conifere amanti della luce e dei terreni poveri e secchi: il ginepro e il pino nero. Il primo, spontaneo, colonizza i terreni aperti, come i prati non più falciati o le aree percorse dall’incendio; il secondo, importato dalle Alpi orientali, è stato piantato dagli enti forestali nei decenni scorsi nelle aree degradate come frane e calanchi.
Il castagneto
Sui versanti interni della valle, esposti a nord-ovest e protetti dal sole estivo e dai venti dominanti, si sviluppa l’antico castagneto piantato in origine dai monaci bobbiensi, colonizzatori medievali di queste plaghe. I vecchi alberi ultrasecolari, ormai martoriati da malattie edema cambiamento climatico, ospitano innumerevoli specie di uccelli, mammiferi e insetti nelle cavità dei tronchi tormentati.
Il querceto
Sui versanti esposti a sud, specie quelli più ripidi dove l’uomo non è riuscito a domare la morfologia del terreno riducendolo a terrazzamenti, si sviluppa una vegetazione boschiva adattata al caldo e all’aridità estiva, dominata da roverelle accompagnate da carpino nero, sorbo domestico e ornello. Nei compluvi incisi dai torrenti compare invece il cerro insieme ad aceri campestri e opali, sorbi ciavardelli e perastri.
Vegetazione submediterranea
Nei terrazzamenti dei versanti meglio esposti della valle si sviluppa una vegetazione amante del caldo, costituita da varie ginestre, da alcune rose selvatiche, da molte specie di bulbose (agli, muscari, gagee, orchidee e gladioli). Unica condizione: che il terreno non geli, danneggiando le delicate radici.
Un tempo questi terrazzamenti erano indispensabili per l’allevamento della vite, ma poi furono abbandonati per decenni per l’impossibilità di utilizzarvi mezzi meccanici come trattori. Oggi assistiamo al loro parziale recupero da parte di nuovi e valorosi contadini.
Le orchidee selvatiche
Il territorio della Val Ceno e della Val Taro, punto di incontro di due zone biogeografiche importantissime come quella mediterranea e quella centroeuropea, si trova ad ospitare una ricchissima flora, tra cui 53 specie di orchidee spontanee la cui bellezza non ha nulla da invidiare alle più celebrate specie tropicali.
Dalla Dacthylorhiza fuchsii dei boschi dal suolo acido (castagneti) alla Ophrys bertoloni dei cespuglieti secchi, alla Dacthylorhiza sambucina delle praterie montane, ogni ambiente (incluse le pozze palustri, i prati falciati, le piantagioni di pino) è interessato dalla presenza di uno o più di questi gioielli botanici.
Il Lago Buono
Alimentato da polle di acqua sorgiva, così da apparire misteriosamente privo di immissari, il Lago Buono è un piccolo specchio d’acqua incastonato in una balconata naturale affacciata sulla Valle del Taro.
Il lago, insieme ad alcuni stagni poco distanti, costituisce un ambiente di vitale importanza per centinaia di specie di piccoli esseri viventi: dalla miriade di libellule di vari colori che si affollano intorno alle rive, agli anfibi che scelgono le sue acque per deporvi le uova: la rana agile, il rospo comune, il tritone apuano, il tritone punteggiato e il raro tritone crestato.
Il torrente Vona e le pareti rocciose
Il torrente Vona scorre spumeggiante incidendo bancate di roccia stratificata: si tratta delle Arenarie di Ranzano, rocce silicee originatesi da sabbie depositatesi sul fondo marino milioni di anni fa e traslate da enormi forze tettoniche nelle attuali posizioni. Sulla superficie delle stratificazioni si possono osservare segni lasciati dalle correnti marine e dal movimento serpeggiante di organismi vermiformi.
Il Pozzo del Saracino
Con questo nome curioso viene indicata localmente una caratteristica formazione geomorfologica nota come marmitta fluviale, creata dal Rio Termi a breve distanza dalla chiesa di S. Cristoforo. Il rio, di modesta portata, nel corso dei millenni ha eroso le arenarie di Ranzano facendo mulinare ciottoli di varia pezzatura e creando una cavità perfettamente circolare.
Il falco picchiaiolo
Il falco pecchiaiolo, a dispetto delle sue dimensioni, ha bizzarre abitudini alimentari: miele, larve di api e vespe selvatiche rubati dagli alveari scavando nel terreno con le robuste unghie. Questo rapace ogni anno migra in Africa, per poi tornare la primavera seguente sorvolando lo stretto di Messina per risalire lungo lo Stivale e concentrarsi a centinaia nei valichi appenninici ed alpini.
La Formica Lugubris
Nelle pinete appaiono grossi cumuli di erbe secche, che ad un occhio attento risultano letteralmente coperti di grosse formiche occupate in una frenetica attività. Sono gli acervi (nidi) della Formica Lugubris, un insetto fondamentale per la salute del bosco. È infatti una attiva cacciatrice delle larve della processionaria, una farfalla responsabile della defoliazione estiva di interi settori di bosco.
Il merlo acquaiolo
Nelle fredde e limpide acque correnti un piccolo e agile uccello, il merlo acquaiolo, cerca le sue prede costituite da piccoli insetti e altri invertebrati. E’ capace di immergersi e nuotare nei flutti spumeggianti aiutandosi con le corte e robuste ali e le zampe dotate di unghie adunche.
Il tritone punteggiato
Terrestre per la maggior parte dell’anno, quando vive tra le foglie umide del sottobosco, il tritone diventa acquatico all’inizio di primavera, per accoppiarsi e deporre le uova, da cui si schiudono larve che restano acquatiche fino all’autunno.
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BORGO VAL DI TARO
Scendendo dalla Val Vona ci si immette subito sul percorso pedonale che, situato sulla riva sinistra del fiume Taro, comodamente ci conduce al centro abitato di Borgo Val di Taro, nome ufficiale di questo importante centro appenninico; nell'uso comune viene indicato come Borgotaro.
L’originaria denominazione era Turris, sia pure in diversa posizione, e fu una creazione militare bizantina all’epoca della guerra gotica e come tale capoluogo di tutta la circoscrizione. Con l’avvento dei Longobardi la curtis Turris cum appenditiis suis costituì uno dei più cospicui e redditizi donativi dei re longobardi al Monastero di San Colombano in Bobbio. In quale modo sia avvenuto il passaggio da Turris a Borgo Torresana e quindi in Borgo Val di Taro non è ancora chiaramente documentato. Si sa per certo che nel diploma rilasciato da Ottone I in Milano il 30 luglio 972 si parla di una ecclesia Sancti Georgi che sorgeva là dove il torrente Tarodine sfociava nel Taro. Intorno a questa chiesa, e successivamente sull'altra sponda del Taro, sorse Borgo Torresana. In seguito, mutate vicende storico-politiche spinsero gli abitanti di Torresana ad insediarsi un poco più a ovest e precisamente sul terrazzo fluviale in cui sorge oggi l'abitato.
Nasce così il nome Borgo Val di Taro. Qui, nel 1226, venne posta la prima pietra della Chiesa di Sant’Antonino, che andrà a sostituire l'ormai troppo scomoda antica Pieve di San Giorgio. Il grande sviluppo urbanistico degli ultimi decenni non ha coinvolto la parte più antica del centro abitato che conserva tuttora la sua struttura originaria, caratterizzata da un tracciato viario rigorosamente regolare, che alcuni studiosi attribuiscono ad un piano preordinato, collegato alla fondazione ex novo di una città, forse voluta dal Comune di Piacenza intorno al XII secolo.
Nei secoli si sono susseguite le dominazioni dei Fieschi, dei Farnese e dei Landi, per venire poi annesso al Ducato di Parma. Il nucleo urbano, circondato un tempo da una cinta muraria, evidenzia eleganti palazzi di un certo interesse storico e architettonico, costruiti fra il XVI ed il XVIII secolo: Bertucci, Boveri (vi risiedette la regina di Spagna, Elisabetta Farnese, durante la sua visita nel 1714; in quell’occasione il palazzo fu decorato da numerosi fregi a stucco ancora conservati), Manara, Piccenardi, Tardiani, Casa Moglia e Casa Cassio.
Durante la seconda guerra mondiale Borgotaro fu centro di battaglie e di azioni partigiane, tanto che nel 1985 ricevette la Medaglia d'Oro al Valor Militare.
Parrocchiale di S. Antonino. Edificata tra il 1644 e il 1667 sui resti di una precedente chiesa del XII secolo, conserva un organo Serassi risalente al 1700 tuttora funzionante. Sulla piazza si trovano anche l'unica torre superstite dell'antica rocca e l'imponente antico ospedale, ora Palazzo Tardiani.
Chiesa di S. Domenico. Risalente al XV secolo e restaurata in quello successivo, si trova all’interno del borgo medievale e conserva alcuni interessanti dipinti, oltre alla pregevole Madonna del Rosario, statua in legno intagliato e dorato del XVI secolo.
Chiesa di S. Rocco. Vi si trova la Via Crucis del napoletano Gaspare Traversi,
“14 tele di inusitato vigore figurativo il cui recente restauro ha restituito un’intensa, realistica, coinvolgente drammaticità” (cit. F. Baroncelli). Le tele del Traversi rappresentano un patrimonio artistico locale di notevole interesse.
Il frutteto dei pellegrini
Si racconta che un tempo, lungo le arterie di pellegrinaggio, meli, peri, noci, noccioli e altri tipi di frutta, oggi spesso dimenticati come i lazzeruoli, i nespoli, i giuggioli e i cornioli, fiancheggiassero viottoli e tratturi per fornire sostentamento ai viandanti che non avevano molti altri mezzi con cui placare la propria fame.
Per ricordare questa antica usanza, nel 2013 il WWF Parma, Gela Parma e Legambiente Valtaro, grazie al supporto del Comune di Borgotaro e dei Parchi del Ducato, hanno messo a dimora una trentina di alberi di antiche varietà da frutta dell’Emilia occidentale, meli, peri, ciliegi e pruni, lungo il tratto di pista ciclabile percorso dalla Via degli Abati. Gli alberi del filare, che ha preso il nome di Frutteto dei Pellegrini, crescono lentamente, sottoposti alle intemperanze del clima: abbiate rispetto per la loro esistenza, grazie.
I frutti antichi
Oggi le varietà di mele, pere, ciliegi e susine che giungono sui banchi del supermercato sono poche decine e presenti per mesi grazie a tecniche di refrigerazione in atmosfera controllata. Un tempo invece sui mercati arrivavano centinaia di varietà diverse, ognuna nel suo giusto tempo di maturazione.
Le mele, per esempio, a seconda delle verità maturavano da luglio fino a novembre, mentre le varietà serbevoli maturavano in fruttaio e si mantenevano fino all’inizio della primavera alla comparsa dei primi frutti del nuovo anno.
La specializzazione era molto più marcata: accanto a frutti per il consumo fresco c’erano quelli per il consumo cotto e quelli per la trasformazione in composte, marmellate, mostarde. Il recupero di queste varietà, oggi, oltre a permettere la riscoperta di sapori dimenticati, è essenziale per combattere parassitosi, malattie, cambiamenti climatici e impoverimento genetico.
LA NATURA DEL FIUME TARO
Negli ultimi decenni le rive del Taro sono state teatro di una rigogliosa rinaturalizzazione spontanea, con la formazione di un folto bosco ripariale di salici, pioppi, ontani, aceri ed anche specie esotiche come robinia e platano. Al riparo di questa vegetazione nidificano germani reali, corrieri piccoli, martin pescatori, piro piro piccoli, usignoli. Altre compaiono nelle migrazioni: aironi rossi, falchi pescatori, marzaiole, pittime, pettegole, cutrettole e tante altre specie.
La garzetta
Nel tratto di fiume che attraversa Borgotaro si può osservare, da primavera ad autunno inoltrato, una ricchissima fauna acquatica costituita da aironi, gabbiani, cormorani, cigni ed anatre selvatiche. Particolarmente vistose nella livrea bianca le garzette, che fiocinano piccoli pesci con il lungo e aguzzo becco.
Il germano reale
È la più comune anatra europea, comunque non molto numerosa nei tratti montani dei fiumi. Il maschio ha una livrea molto vistosa, mentre la femmina ha un piumaggio mimetico necessario per sfuggire ai predatori quando deve restare immobile sul nido a covare le numerose uova.
Il martin pescatore
Un acuto fischio preannuncia l’arrivo del martino, che sfreccia in linea retta, rapidissimo, a pochi centimetri sopra il pelo dell’acqua, per fermarsi improvvisamente a librarsi sul fiume per individuare la preda e quindi gettarsi a capofitto nei flutti per riemergere con un pesciolino infilzato nel becco.